giovedì 27 gennaio 2011

Il Crepuscolarismo Sergio corazzini Desolazione

IL CREPUSCOLARISMO

L'aggettivo "crepuscolare" venne usato per la prima volta dal critico e scrittore G.A. Borgese (1882-1952) per definire quella poesia di inizio Novecento che cantava gli aspetti più dimessi e banali della realtà quotidiana; essa infatti aveva abbandonato i temi e il linguaggio elevati della poesia dannunziana, ma si differenziava anche dall'opera di Pascoli, che aveva caricato il suo universo poetico, fatto di "piccole cose", di un forte valore simbolico. I poeti crepuscolari non hanno mai costituito una vera e propria "scuola", ma le affinità nei temi e nelle scelte stilistiche hanno condotto i critici a identificarli come un gruppo omogeneo e a considerarli come una delle avanguardie della lirica del Novecento. Gli esponenti più significativi del gruppo sono Corrado Govoni (1884-1965), che approderà poi al Futurismo, Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907) e, soprattutto, Guido Gozzano (1883-1916), che eserciterà un'importante influenza su alcuni poeti successivi, come Eugenio Montale. Le principali caratteristiche del Crepuscolarismo sono le seguenti:

  • l'attenzione a una realtà quotidiana spesso di basso profilo e la rappresentazione realistica di ambienti e di personaggi dell'universo piccolo borghese;
  • un diffuso scetticismo sulle reali capacità di espressione e di comunicazione della poesia nella società borghese e il conseguente rifiuto del "poeta vate" dannunziano;
  • l'abbandono del linguaggio aulico della tradizione a favore di un lessico quotidiano e di un andamento quasi prosastico del discorso che avvicina la poesia al "parlato";
  • a fronte di questa rivoluzione nel linguaggio, un rispetto rigoroso della tradizione metrica, nei ritmi, nella regolarità delle rime, nella scelta delle forme più classiche, dalla terzina al sonetto;
  • a queste caratteristiche comuni a tutti i poeti bisogna aggiungere, per la produzione di Gozzano, un atteggiamento di sorridente ironia che si esercita nei confronti di tutto il suo universo poetico e che rimette costantemente in discussione il significato e il messaggio delle sue liriche

Sergio Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale

Sergio Corazzini (Roma 1886 – Roma 1907) è il poeta fanciullo della nostra letteratura, morto ventunenne di tisi. Molte sue poesie sono state scritte con la febbre, tra gli sbocchi di sangue; e i sudori della consunzione imperlano la sua scrittura. Corazzini è uno dei reggitori, assieme a Gozzano, del cielo crepuscolare italiano; con la sua poca età e le sue poche forze – e prendendo a dire il vero più d’un suggerimento dai simbolisti francesi – ha cambiato paesaggio alla nostra poesia di inizio secolo: verso libero, simbolismo misterioso degli oggetti, messa in discussione del mestiere di poeta e rifiuto spossato di qualsiasi azione alta.

Corazzini dal 1904 al 1906 pubblicò le seguenti raccolte di poesie:

Dolcezze, Roma 1904, diciassette liriche.

L’amaro calice, Roma 1905, dieci liriche.

Le aureole, Roma 1905, dodici liriche.

Piccolo Libro Inutile, Roma 1906, otto liriche di Corazzini e le altre dell’amico Alberto tarchiani.

Elegia, Roma 1906, composizione di ottantatrè versi.

Libro per la sera della domenica, Roma 1906, dieci liriche.

Desolazione del povero poeta sentimentale

dal Piccolo libro inutile

I.

Perché tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.

Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.

Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.

Perché tu mi dici: poeta?

II.

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.

Le mie gioie furono semplici,

semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.

Oggi io penso a morire.

III.

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;

solamente perché i grandi angioli

su le vetrate delle cattedrali

mi fanno tremare d'amore e di angoscia;

solamente perché, io sono, oramai,

rassegnato come uno specchio,

come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:

sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV.

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!

E non domandarmi;

io non saprei dirti che parole così vane,

Dio mio, così vane,

che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.

Le mie lagrime avrebbero l'aria

di sgranare un rosario di tristezza

davanti alla mia anima sette volte dolente,

ma io non sarei un poeta;

sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo

cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V.

Io mi comunico del silenzio, quotidianamente, come di Gesù.

E i sacerdoti del silenzio sono i romori,

poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI.

Questa notte ho dormito con le mani in croce.

Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo

dimenticato da tutti gli umani,

povera tenera preda del primo venuto;

e desiderai di essere venduto,

di essere battuto

di essere costretto a digiunare

per potermi mettere a piangere tutto solo,

disperatamente triste,

in un angolo oscuro.

VII.

Io amo la vita semplice delle cose.

Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,

per ogni cosa che se ne andava!

Ma tu non mi comprendi e sorridi.

E pensi che io sia malato.

VIII.

Oh, io sono, veramente malato!

E muoio, un poco, ogni giorno.

Vedi: come le cose.

Non sono, dunque, un poeta:

io so che per esser detto: poeta, conviene

viver ben altra vita!

Io non so, Dio mio, che morire.

Amen.

Struttura metrica: otto strofe disuguali di versi liberi ( tanto che possiamo parlare di otto segmenti discorsivi)

Il titolo riassume il tono generale di tristezza della poesia crepuscolare, intesa come espressione di sentimenti semplici e comuni, vissuti in uno stato d’animo di ango­scia esistenziale. Questo stato d’animo, nella poesia del Corazzini, si articola nelle diverse strofe, riflettendosi ed assumendo qua e là sfumature particolari.

Nella prima strofa il poeta si rivolge a un lettore immaginario, al quale dice, con tono dimesso, di non chiamarlo poeta, perché egli non è che un piccolo fanciullo che piange eche non ha che da offrire lacrime al Silenzio.

L’affermazione di “non essere poeta” non è rifiuto della poesia in genere, ma è una precisa scelta di poetica, è cioè il rifiuto della poesia tradizionale solenne ed altisonante, impersonata da poeti “vati”, come Carducci e D’Annunzio, e gusto per una poesia nuova, fatta di sentimenti semplici e comuni, espressi con parole in uso nel quotidiano.

Nella seconda strofa il poeta dice che le sue tristezze sono quelle comuni a tutti; le sue gioie sono così semplici che si vergognerebbe a confessarle ed arrossirebbe, se lo facesse. Questo vuol dire che egli non ha ormai nessun interesse di continuare a vivere al punto di desiderare la morte.

Il poeta, che ha terminato la seconda strofa dicendo di pensare a morire, all’inizio della terza dice di voler senz’altro morire, perché è stanco di soffrire e perché gli angeli dipinti nelle vetrate delle cattedrali, suggerendogli l’idea dell’altro mondo, gli incutono sentimenti d’amore e di paura. Non può essere quindi chiamato poeta uno che vuole unicamente morire.

Nella quarta strofa troviamo una ripresa dei motivi iniziali. Rivolgendosi ancora al let­tore immaginario, il poeta lo esorta a non meravigliarsi della sua tristezza e a non chiedere spiegazioni, perché egli non gli direbbe che parole vane, tanto vane che ogni tentativo di spiegarle si risolverebbe in pianto, come se fosse per morire. Le lacrime sono per lui una specie di preghiera, simili ai grani di un rosario davanti alla sua anima sette volte dolente (come il cuore della Madonna ferito da sette spade); ma non per questo egli sarebbe poeta: sarebbe solo un fanciullo qualunque, che nella vita prega, canta e dorme.

Nella quinta strofa il poeta dice che egli ogni giorno si nutre di silenzio, come il cristiano si nutre di Gesù (nella comunione). E i rumori della vita quotidiana sono i sacerdoti del silenzio, perché essi lo inducono a chiudersi in se stesso e a trovare Dio.

Nella sesta strofa il poeta dice di aver dormito la notte con le mani in croce(pensando alla figura di Cristo) e che nel sonno gli sembrò di essere un piccolo fanciullo abbandonato da tutti gli uomini, e desiderò di essere venduto, battuto, costretto a digiunare, per poter piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro.

Nella settima strofa con un procedimento caro ai poeti crepuscolari, il poeta si contrad­dice. Egli, che aveva detto di amare la solitudine e di aver desiderato di piangere tutto solo in un angolo abbandonato, ora dice di amare la vita semplice delle cose, ma siccome le cose sfioriscono, egli ha visto a poco a poco cadere le sue passioni per ogni cosa che sfioriva. Il lettore non può comprendere ciò e sorride: pensa che il poeta sia malato.

Nell’ottava strofa il poeta dice di essere veramente malato e di morire ogni giorno un poco, come muoiono tutte le cose. Ecco perché egli non è un poeta. Per essere un vero poeta è necessario vivere una vita ben diversa (essere cioè sani, oppure si può anche intravedere una sottesa polemica verso lo stile di arte e vita in D’Annunzio), mentre egli è veramente malato e non sa che morire. E così sia, conclude rassegnato il poeta ricorrendo alla nota formula liturgica(Amen).

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